Si incorre spesso nell’errore di pensare che la letteratura per l’infanzia sia qualcosa di innocuo, di inoffensivo, di lieve, a volte — nei casi peggiori — di insignificante rispetto alla letteratura classica, intesa in senso lato.
Nel caso particolare degli albi illustrati, in essi non si riconosce il potenziale che questa forma di racconto custodisce, la sua forza dirompente, la sua valenza sincretica, la capacità di racchiudere in poche pagine un mondo di significati, rimandi, richiami, emozioni.
L’approccio ad un albo non può essere inteso come semplice “svago” (in alcuni casi lo è, è vero, ma non solo) perché mette in moto associazioni, molto spesso parla di sentimenti, paure, topos, desideri, conflitti. Ed instaura con il bambino un vero e proprio dialogo che può avvenire attraverso le parole, ma anche semplicemente attraverso le immagini (e qui il grande successo dei silent book), il contatto, la semplice osservazione. Perché non c’è differenza per un bambino, tra forme di linguaggio, essendo la sua mente ancora aperta ed estremamente inclusiva, ricettiva e predisposta all’apprendimento e all’ascolto attivo.
Gli albi, però, va ricordato, sono scritti e illustrati da adulti che per instaurare una comunicazione con i loro lettori devono fare uno sforzo di immedesimazione — in alcuni casi i risultati sono talmente alti che si ha come l’impressione che lo sforzo sia stato minimo, se non nullo — esercitando e nutrendo quella dimensione ideale legata alla fantasia e all’immaginazione che è stata terreno fertile nella nostra comune infanzia. Scrivere albi, è in qualche maniera, trovare codici espressivi ma anche allenare con costanza la propria capacità immaginifica. E per questo coltivare la propria parte bambina.
Sarà per questo motivo che molto spesso gli albi illustrati sono in grado di emozionare anche gli adulti, perché hanno la capacità di far risuonare echi e corde di un passato lontano eppure presente in noi. È una frase molto abusata, ma è sicuramente vera: in ognuno di noi vive il bambino che siamo stati.
E a volte, per questo motivo, si cade in un altro errore, opposto, che è quello di pensare che ci siano albi che siano stati scritti per un pubblico adulto, quando non è così. Forse ancora non ci rendiamo conto di quanto la mente di un bambino sia aperta a conoscere e capire, e quanto sia profonda la sua capacità critica, se ben stimolata e supportata, nonostante la sua giovane età.
L’esempio più lampante che mi viene in mente è il pluripremiato Io aspetto di Davide Calì e Serge Bloch che è diventato libro di culto a livello internazionale, edito da Kite Edizioni, piccola parabola sul senso della vita, con le sue tappe e le sue cariche attese, anche la sua durezza.
C’è un’altra autrice che riesce a stringere un coinvolgente legame con la nostra interiorità più intima e profonda, quella che siamo soliti tenere al riparo. Per questo, venire a contatto con i suoi libri reca con sé anche una piccola fitta dolorosa, quella dell’insinuarsi lieve ma incisivo dentro di noi.
È di Yael Frankel che intendo scrivere, che qui in Italia è stata pubblicata quasi totalmente, ancora una volta, dalla casa editrice Kite Edizioni.
Leggendo le sue pagine mi è capitato, a volte, di ritrovarmi priva di quelle difese che arriviamo a costruirci a poco a poco nel tempo, a quei filtri che poniamo fra noi e la realtà più acuminata. Per questo, ripercorrere la sua bibliografia è come compiere un viaggio in noi stessi e non sempre si è preparati a farlo. È accaduto, lo confesso, di chiudere spesso un suo libro e trarre un profondo respiro prima di continuare nella lettura. Tanto intensa era l’emozione che suscitavano l’essenzialità delle sue parole centellinate e delle sue immagini spesso volutamente naïf, che si accordano come uno spartito di volta in volta mutevole ad ogni narrazione.
È un linguaggio dosato ma sottile quello di Yael Frankel. Sono parole che pongono di fronte alle cose in maniera netta, senza ricami, né giravolte, né alambicchi, né artificiosità.
In Niente di niente, assistiamo alla storia minima di due piccole solitudini. Quella di una pietra e quella di un bambino, accomunati dalla stessa condizione di rassegnata immobilità, ma che un giorno fortuitamente incrociano il loro cammino. E allora il niente sommato al niente diventa un qualcosa. Il grigio dell’inerzia si disperde nel blu carico di una doppia pagina che raccoglie in sé la semplicità di un pampano.
La vita non sarebbe niente di niente senza i nostri incontri, scontri, inciampi, cadute anche, sugli altri. Yael Frankel lo dice e non lo dice. Lascia che sia un segno tracciato a terra col gessetto a suggellarlo simbolicamente. E quel simbolo si traduce in un messaggio di una fortissima valenza espressiva.
In Un buco questa volta la Frankel si confronta con l’assenza, la perdita, il lutto. È come se ci dicesse: «Guardiamoci negli occhi, senza abbassarli, l’assenza è un buco che abbiamo nel petto». E già questo è difficile da accettare, detto così. Senza mezze misure, senza scorciatoie. Però è vero. È quello che è. Perché renderlo con un’immagine che abbia meno impatto, quando si può arrivare diretti al punto?
L’assenza è un buco ed è lì a ricordarci che qualcosa è venuto a mancare. Ci sono momenti nei quali si impadronisce di noi. Ci attrae nella sua spirale di abbandono e solitudine. È difficile emergere, trovare appigli, per risalire, per tornare in superficie. Altri in cui cerchiamo inutilmente di colmarlo, in ogni modo, senza riuscirci. Altri ancora in cui diviene un riparo, in cui raccogliersi come un posto intimo e sicuro. Altre addirittura si trasforma in fonte di ispirazione, perché il dolore con il tempo è in grado di tradursi nella potenza salvifica della bellezza. Finché non ci rendiamo conto, ma solo con la pazienza di un percorso emotivo faticoso, che il buco è ormai diventato una parte di noi e che con questa parte possiamo convivere. Non c’è nulla di più lucido e chiaro. Le ferite rimangono come segni del nostro passato, ma non è detto che non possano portarci consapevolezza e un nuovo modo di guardare alle cose. E mentre raccogliamo i frammenti del nostro fragile riparo, ci chiediamo quanto di profondamente suo ci sia nei suoi libri, per colpirci così, al centro di noi stessi.
Ma non lasciamoci ingannare, Yael Frankel è ancora una volta pronta a prenderci in contropiede in Così piccola.
Come? Lascio a voi il modo di scoprirlo visto che si tratta di una delle ultime uscite di Kite Edizioni.
Una parte di me è il libro più affilato di Yael Frankel, quello che arriva in maniera più precisa e potente. A mettere insieme ogni minimo frammento di cui siamo composti. A scomporci pagina per pagina, per poi dirci, alla fine, che ogni piccola parte è essenziale per essere noi. Anche quando quella piccola parte ci fa tremare, anche se «ci ha tradito per vincere l’imbarazzo», anche se è quel posto in cui custodiamo la rabbia e proprio lì facciamo spazio alla tristezza.
Chiudo il libro e penso a come Yael Frankel riesca a leggermi dentro così nel profondo. Poi penso anche che ci sono esperienze che ci accomunano tutti e che la grandezza, alla fine, della Frankel sia proprio di suggerirci con forza: «Non importa, non sei solo».
©ZazieVostok