Con il tempo sono sempre più disposta a pensare che le cose che ci capitano non si incastrino fra loro a formare strane alchimie per pura coincidenza, ma si possa parlare — quando ci accadono eventi straordinari e conclamati — chiaramente e senza ombra di dubbio, di fatalità.
Le circostanze, e noi tutti, siamo legati da trame che prima o poi rivelano i loro intrecci. E una volta rivelati si è molto più sensibili e attenti nel coglierli.
Di esempi ne esistono una miriade, perché quando si apre dinnanzi a noi lo scrigno lucente della fatalità, nulla può venir più tralasciato ed isolato, osservato come monade lontana e indifferente. Ma tutto finisce per collocarsi nel luogo in cui doveva essere e nel momento esatto nel quale doveva manifestarsi.
Vengo al punto. Ho deciso di scrivere questo articolo per parlarvi di tre libri che mi sono capitati per le mani nel periodo pre-festivo e festivo.
Tutti e tre costituiscono una variazione su un tema preciso. Una visione assolutamente personale di una favola intramontabile come è quella di Cappuccetto rosso. Trasposta, citata, studiata, sezionata, amata, strumentalizzata persino.
Non ho intenzione di fare una panoramica, né di dedicare una digressione su quella che può benissimo essere considerata la fiaba più conosciuta al mondo.
Mi piacerebbe però parlarvi di questi tre libri illustrati che ho trovato molto interessanti nella loro sorprendente singolarità e sincronicità. Tutti e tre, infatti, oltre ad essersi manifestati nello stesso momento, hanno a che fare, direttamente o indirettamente, con il teatro e la drammaturgia teatrale.
Le loro identità finiscono per giocare, dialogare, aprire scenari comuni e distanti. Vicinissimi e in qualche caso complementari. Misteriosi e sicuramente in tutti e tre i casi stimolanti.
Partirei dal primo, che è Lupo Rosso. Un volume prodotto dal Laboratorio Zanzara e pubblicato da add editore. Di questo laboratorio nascosto fra le stradine di Torino del quartiere Quadrilatero avevo già letto Almeno un’ora al giorno bisogna essere felicie me ne ero fatta incantare. Non ero la sola. Lo stesso Fabio Geda nella prefazione lo presentava come un «paio di occhiali polarizzati» da portare sempre con se nel taschino per avere una visione diversa e più profonda delle cose.
Al laboratorio lavorano persone con disagio mentale insieme a educatori e professionisti nel settore della comunicazione visiva, del design e dell’arte. Una bella realtà. Di quelle da sostenere, in cui credere.
Lupo Rosso è un’idea che nasce da un progetto partito dal teatro. Dal 2004 Marzia Scarteddu regista e socia fondatrice della onlus, a cui il laboratorio fa capo, propone al gruppo di confrontarsi con una favola. L’idea è quella di lavorare sul corpo, sulle emozioni, per spingere ognuno a percorsi personali e interiori. Quest’anno la favola scelta, come si può evincere dal titolo del libro, è stata Cappuccetto rosso.
Il risultato del laboratorio e la sua drammaturgia essenziale, affilata e avventurosa, nella sua apertura alla sperimentazione di significati e visioni, è stata raccolta in questo libro a cui è stata data la connotazione fisica e le caratteristiche grafiche che sono divenute il marchio di fabbrica del Laboratorio Zanzara. Un’attenzione particolare al volume come oggetto di graphic design: le parole di Marzia Scarteddu e le immagini prodotte dal laboratorio ridotte ad un’economia minima sono affidate ad una sapiente cura serigrafica.
In Lupo Rosso la storia si risolve in un confronto tra due maschere: il lupo e la bambina. C’è voluto un anno di lavoro, spiega la Scarteddu, perché si arrivasse a comprendere che le due figure potevano tranquillamente essere fuse insieme.
Non c’è una contrapposizione netta in questa favola post-moderna fra Cappuccetto rosso e il lupo, una e l’altra addirittura hanno una potenzialità di commistione reciproca.
Cappuccetto rosso non è una brava bambina, ma una bambina molto determinata e il lupo non è un lupo cattivo ma un lupo che è affamato di conoscenza. Si ciba di conoscenza.
Entrambi, dunque, sono guidati dalla medesima spinta. Quella della scoperta dell’altro e delle cose. Entrambi, schierati contro un mondo di regole e dettami, al quale si contrappone un universo di libertà e fantasia.
«Era mercoledì 16 maggio […] Cappuccetto Rosso determinata e appassionata fa come dice la sua testa» — certo che le zanzare punzecchiano forte.
Siamo arrivati sin qui lasciandoci alle spalle fogli di lucidi decorati con foglie, lupi e un elefantino che si è perso da chissà quale altra fiaba. Le stesse parole sulla carta compongono immagini. La storia è divisa in capitoli. Ognuno ha il suo titolo: Una storia conosciuta, Una magia, La terra dei ricordi, La porta rossa, Nuovo mondo.
La mimesi ci appare totale. Anche la pelliccia del lupo è rossa come i vestiti di Cappuccetto. Sulla carta i due personaggi da una pagina e dall’altra si protendono ad incontrarsi.
È un attimo, poi si separano per ritornare ai loro destini predefiniti. Ma questa volta a trovare il lupo dormiente non arriva il cacciatore, bensì l’uomo nero armato di un gran paio di forbici con le quali trae in salvo dalla pancia lupesca una matrioska di personaggi fra i quali Dio, un osso di seppia e naturalmente Montale.
Che fine farà il lupo? Solo la meraviglia che ci regala Laboratorio Zanzara poteva trovare un finale così ironicamente e teneramente avvincente.
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Il secondo libro è C’era una volta una bambina. Non è una novità editoriale, ma l’ho riletto perché a Genova ci sono state due repliche dell’omonimo spettacolo per la regia di Sara Due Torri. Spettacolo che è stato tratto proprio dall’opera di Giovanna Zoboli e Joanna Concejo, edita da Topipittori.
Ancora una volta il teatro, a trasporre un linguaggio in un altro.
C’era una volta una bambina è, nel suo struggente nucleo narrativo, una storia d’amore e di libertà, cercata e perduta.
Li vediamo già in copertina, la bambina e il lupo. Vicini. Si rivolgono timidamente le spalle, di tre quarti, le mani poggiate alle tempie, come a voler ammirare nuovi orizzonti. O a concentrarsi per non sentire le voci che ripetono da secoli le stesse regole, gli stessi dettami, gli stessi consigli, i medesimi suggerimenti perché nulla cambi, ma tutto vada a collocarsi perfettamente nelle caselle asfittiche della tradizione. Dell’«attenta agli sconosciuti, attenta a non cadere, attenta a te». Che si traducono, principalmente, nell’«attenta a quello che fai o a ciò che osi dire o pensare».
La tradizione autoritaria che preme e conduce, si insinua e tutto sa, è tradotta da Giovanna Zoboli in un nenia antica e potente che accompagna il corso del libro e che ne costituisce la struttura fondamentale dalla forte caratura emotiva.
E non tiene in conto l’individualità di nessuno. Parla per stereotipi, figure, ruoli. Una bambina deve stare attenta agli sconosciuti, a non cadere. Le bambine ad un certo punto crescono e se ne vanno. Ovviamente verso un destino prestabilito da altri: una casa, stoviglie tintinnanti, punto croce, punto erba.
Eppure questa bambina è una bambina diversa. Cresce sola e attenta. Si avventura in uno bosco dai mille occhi, ma non ne ha paura. Si trova di fronte al lupo e non lo teme. Anzi, diventa sua compagna di giochi. Lei gli insegna nuove parole, lui le insegna l’amore. Entrambi divengono compagni, uno per l’altra.
Difficile è parlare di questo libro senza averlo fra le mani e senza poterne cogliere direttamente la forza primigenia. Sarà questo tam tam delle parole, saranno le illustrazioni della Concejo che recano sempre con sé una loro ruvidezza primordiale.
La casa e il bosco, paiono essere, anch’essi, due poli protagonisti della storia. La casa rivendica la propria autorità sulla bambina così come è stato dalla notte dei tempi, il lupo è solo un pegno del bosco che ha tutta intenzione di riportarlo a sé attraverso la figura del cacciatore.
La bambina appartiene alla casa. Il lupo appartiene al bosco. Difficile sottrarsi alla sorte stabilita per loro da secoli. Lo sforzo è vano. Il filo rosso che li unisce, che è quello del destino, finirà per essere reciso. Un capo rimarrà alla bambina che ne filerà un ricamo per ricordare per sempre la loro storia, quella di Cappuccetto rosso.
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Il terzo libro è Il bosco, la ragazza e il lupo di Giovanna Ranaldi, edito da Kite edizioni.
Giovanna Ranaldi si è occupata per anni di restauro per poi approdare all’illustrazione. In realtà il suo percorso è stato “deviato” da un’esperienza come scenografa teatrale. Ancora una volta il teatro a tessere legami.
In un’intervista ha dichiarato che se dovesse ancora confrontarsi con questa realtà le piacerebbe certamente sperimentare nuove strade con il “teatro delle ombre”.
Quando mi sono trovata di fronte a Il bosco, la ragazza e il lupo è proprio al teatro delle ombre che ho subito pensato. Le figure sembrano muoversi su un’ideale quinta teatrale e sono delineate da pochi tratti come fossero sagome, ombre appunto, che si muovono a comporre la scena. A queste tavole se ne alternano altre di carattere maggiormente figurativo. Ma quest’opera finisce per conservare un mistero che è ben difficile da dipanare.
I tre protagonisti — il bosco, la ragazza e il lupo — sembrano tutti appartenere allo stesso mondo naturale. Non ci sono contrasti, non ci sono confini. I colori vanno dal bianco al rosso al nero. Si mescolano e si integrano fra loro. Fino a che giunge una figura estranea. È quella del cacciatore. Il contatto visivo fra lui ed il lupo occupa lo spazio di una tavola, ma sembra durare in eterno. La casa della nonna si scompone sotto ai nostri occhi come una casetta di carta. È l’attimo di uno sparo, forse più di uno. Cappuccetto rosso è sdraiata a terra, nella pagina accanto sembra vegliarla un cervo in penombra. Nelle tavole seguenti, il pack dei lupi fugge via lontano.
L’albo si conclude e noi rimaniamo straniti ma colmi della bellezza delle immagini della Ranaldi, pronti a immergerci di nuovo in questo mondo misteriosissimo per trovare la chiave di una storia che apparentemente ci vuole osservatori lontani.
Allora mi riprometto di parlare con Giovanna Ranaldi di quest’opera, della sua trasposizione di Pollicino (Il più piccolo di sette, sempre pubblicato da Kite edizioni) e del suo rapporto con le fiabe.
Perché come diceva Albert Einstein: «Se volete che vostro figlio sia intelligente, raccontategli delle fiabe; se volete che sia molto intelligente, raccontategliene di più».
©ZazieVostok